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Plastica e biodiversità nel nostro mare

Più di metà della plastica che si trova nelle nostre aree marine viene riversata in mare da altri Paesi del bacino del Mediterraneo. Le collaborazioni internazionali sono quindi indispensabili per gestire questo tipo di inquinamento.

Il Mediterraneo è oggi considerato uno dei mari più inquinati dalla plastica. Secondo stime recenti, sarebbero circa 17.600 le tonnellate di materiale polimerico che ogni anno vi vengono riversate, e oltre 3.700 quelle che galleggiano in superficie. L’84 per cento di questo enorme volume di materiale termina il proprio viaggio sulle spiagge, mentre il restante 16 per cento rimane nella colonna d’acqua o precipita sui fondali (una colonna d’acqua è una colonna concettuale di acqua che parte dalla superficie del mare, di un lago o di un fiume e scende fino ai sedimenti di fondo).

Allo stesso tempo il mare che bagna le nostre coste è anche tra quelli con il più alto tasso di biodiversità e ospita numerose aree marine protette: un tasso così elevato di inquinamento da plastica mette inevitabilmente a rischio la sopravvivenza non solo di molte specie, ma anche di interi ecosistemi.

L’inquinamento da plastica colpisce di fatto la biodiversità marina a tutti i livelli, dalla superficie al fondale. Il cosiddetto marine litter, cioè l’insieme dei rifiuti (si tratti di micro o macroplastiche) creati dagli esseri umani e dispersi in mare o sulle coste, può accumularsi nel tratto gastrointestinale degli animali marini, sia grandi sia piccoli, e causare danni fisici e meccanici, come l’abrasione, l’infiammazione, il blocco delle appendici o dei filtri di alimentazione. In alcuni casi, quando il tratto gastrointestinale viene ostruito o gravemente danneggiato, l’ingestione dei rifiuti può portare alla morte dell’organismo. E sì, anche noi esseri umani, consumando prodotti ittici (per esempio frutti di mare) ingeriamo queste particelle.

Tracciare i flussi di plastica

Per comprendere il viaggio delle plastiche all’interno del Mediterraneo, i ricercatori hanno sviluppato negli ultimi anni numerosi modelli e simulazioni con cui valutare non solo la quantità di inquinanti nella colonna d’acqua, ma anche la loro distribuzione. Questo serve a comprendere come i flussi di plastica si muovano nelle acque del nostro mare, così da formulare possibili soluzioni per provare a ridurne gli effetti deleteri. A ottobre 2021, per esempio, i ricercatori del Centro ellenico per la ricerca marina e dall’università di Atene hanno pubblicato i risultati di uno studio in cui sono stati simulati i percorsi e il destino finale dei detriti di plastica nel bacino Mediterraneo in un periodo di otto anni (dal 2010 al 2017).

Il modello in questione ha messo in luce come le microplastiche di dimensioni minori si trovino principalmente vicino alle città metropolitane e alle aree densamente popolate lungo le coste francesi, spagnole e italiane, mentre le zone con microplastiche di dimensioni maggiori sono quelle nei pressi dei luoghi in cui le acque reflue non vengono trattate, come per esempio le coste al largo della Grecia e della Turchia. Le macroplastiche risultano invece abbondanti nelle aree con importanti immissioni fluviali, come le coste algerine, albanesi e turche, e vicino alle città e alle coste altamente popolate di Spagna, Francia e Italia.

A risultati simili era giunto anche uno studio di qualche mese prima, condotto dall’Istituto mediterraneo di studi avanzati e l’Istituto di oceanografia di Maiorca assieme all’Università di Siena. Nello studio era stato valutato l’inquinamento marino attraverso un sofisticato sistema di modellazione 3D. L’aspetto più allarmante del quadro così rappresentato è che il 95 per cento delle aree marine protette è a rischio elevato di contaminazione.

Metà dell’inquinamento viene prodotto altrove

I risultati pubblicati a gennaio 2022 di uno studio recente hanno aggiunto nuove evidenze su come le acque del Mediterraneo non “rispettino” i confini nazionali, ma siano invece soggette ad altre leggi, fisiche e biologiche. Lo studio è stato condotto da un gruppo internazionale di ricercatori del Centro ellenico per la ricerca marina, dell’università di Atene, dell’università di Brisbane (Australia) e del Dipartimento di ecologia marina della Stazione Anton Dohrn di Napoli. La maggior parte dei Paesi mediterranei oggetto dello studio (13 su 15) presenta almeno un’area marina protetta nazionale in cui oltre il 55 per cento di macroplastiche proviene da fonti oltre confine: un dato che ribadisce la necessità di una collaborazione internazionale per la gestione dell’inquinamento da plastica nelle aree marine protette.

Nello stesso studio, i ricercatori hanno simulato anche l’accumulo di micro e macroplastiche nelle aree protette in base alle dimensioni. La taglia delle particelle di plastica ha infatti un impatto diretto sulla loro capacità di spostarsi lontano rispetto alla loro origine. In particolare, quelle di dimensioni maggiori hanno maggiori probabilità di percorrere grandi distanze, mentre le più piccole sembrano rimanere più concentrate nelle aree costiere.

Rudi Bressa
Giornalista ambientale e scientifico, collabora con varie testate nazionali e internazionali occupandosi di cambiamenti climatici, transizione energetica, economia circolare e conservazione della natura. È membro di Swim (Science writers in Italy) e fa parte del board del Clew Journalism Network. I suoi lavori sono stati supportati dal Journalism Fund e dalI'IJ4EU (Investigative Journalism for Europe).
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