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Scoperte serendipiche – Charles Robert Richet, Paul Portier e l’anafilassi

Agli inizi del Novecento i fisiologi Charles Robert Richet e Paul Portier studiavano sui cani l’effetto del veleno di un anemone di mare. Volevano capire se fosse possibile aumentare la tolleranza di un organismo al veleno con ripetute somministrazioni. Scoprirono l’effetto opposto: somministrazioni ripetute potevano provocare uno shock a esposizione successive anche di bassissime dosi, perché la prima esposizione aveva reso l’organismo più sensibile.

Ogni anno in Italia sono alcune decine le persone che muoiono per anafilassi, una violenta e rapidissima reazione allergica a sostanze di varia natura, contenute soprattutto in farmaci, alimenti e veleni di insetto. Nel complesso, l’anafilassi con esito fatale è (per fortuna) molto rara e si stima che il rischio sia lo stesso di morire colpiti da un fulmine. Un paragone calzante anche per altri versi poiché l’anafilassi è per lo più imprevedibile: sebbene siano considerate più a rischio le persone con allergia nota, potenzialmente può colpire chiunque e in qualunque momento.

Ma come siamo arrivati a comprendere a fondo questo fenomeno? La scoperta dell’anafilassi si deve alla collaborazione, all’inizio del secolo scorso, tra due fisiologi, Charles Robert Richet e Paul Portier. Passata alla storia come scoperta serendipica, ha contribuito a costruire i pilastri dell’immunologia. Ripercorriamola insieme.

Lo yacht e la caravella

L’inizio della storia di questa scoperta si colloca a bordo dello yacht “Princesse Alice II” di proprietà del principe Alberto I di Monaco. Il principe era un grande magnate delle scienze oceanografiche e la “Princesse Alice II” era una di quattro navi di ricerca a bordo delle quali egli invitava gli scienziati a condurre i loro studi. Nel luglio del 1901 salirono a bordo i ricercatori francesi Charles Richet e Paul Portier e la nave fece rotta per Capo Verde.

Il principe chiese loro di studiare il veleno della caravella portoghese, il cui nome scientifico è Physalia physalis. Si tratta di un sifonoforo, un animale che forma colonie galleggianti da cui pendono lunghi tentacoli urticanti usati nella caccia, dall’aspetto simile a quello di una medusa. Il veleno della caravella portoghese paralizza le piccole prede, mentre negli esseri umani causa di norma un fortissimo dolore e solo raramente ha effetti anche più gravi, morte inclusa. La presenza dell’animale in Costa Azzurra era una minaccia per il turismo, e studiandone il veleno Alberto I sperava che i ricercatori riuscissero a trovare un antidoto per i bagnanti.

Durante il viaggio, gli scienziati riuscirono a procurarsi nei pressi di Capo Verde esemplari di caravella portoghese sufficienti per le ricerche. Capirono dove si trovava il veleno e come estrarlo, poi ne studiarono gli effetti in diversi animali (uccelli, cavie, conigli, rane), ottenendo perlopiù le paralisi già osservate. Richet e Portier si chiesero come avrebbero reagito gli animali a iniezioni ripetute: avrebbero potuto forse sviluppare una tolleranza alla tossina? A ispirare i due fisiologi furono forse gli studi di Louis Pasteur, che a quel tempo aveva da poco sviluppato i primi vaccini attenuati. Erano chiamati così i vaccini ottenuti da microrganismi che, indeboliti da passaggi in condizioni particolari di coltura in laboratorio, potevano offrire una protezione contro la malattia causata dagli stessi patogeni non attenuati.

Gli esperimenti di Richet e Portier

Poiché i fisiologi non potevano condurre i loro esperimenti in mare, decisero di proseguire le indagini nel laboratorio di Richet, presso l’università di Parigi, impiegando il veleno di un anemone di mare (Anemonia sulcata), più facile da reperire rispetto a quello della caravella portoghese. I due scienziati per prima cosa determinarono sperimentalmente su alcuni cani quale fosse la dose letale del veleno estratto dall’anemone, rapportata al peso corporeo dell’animale inoculato. In questo modo intendevano progettare un protocollo di somministrazioni a diversi animali con l’obiettivo di aumentare la loro resistenza al veleno. Cominciarono le iniezioni in serie, ma queste non diedero i risultati previsti: né i cani né gli altri animali sembravano sviluppare una tolleranza misurabile al veleno. I due fisiologi continuarono gli esperimenti, finché un giorno furono presi alla sprovvista: avevano appena avviato un esperimento somministrando una dose di veleno minuscola, non letale, a otto cani e tutti erano morti nel giro di pochi minuti.

Cosa avevano in comune gli sfortunati animali? Dagli appunti taccuini si fece largo un’ipotesi: dopo la prima esposizione al veleno e il completo recupero, i cani erano forse diventati estremamente sensibili alla sostanza. L’effetto esattamente opposto a quello che i ricercatori avrebbero voluto indurre.

Il sacrificio degli unici due cani rimasti diede ragione agli scienziati. A Neptune e Galathée, così si chiamavano, furono somministrate due piccole dosi di veleno di anemone, la seconda a pochi giorni dalla prima, ed entrambe causarono sintomi blandi o nessun sintomo. Quando però a un mese di distanza i due cani furono di nuovo esposti alla tossina, entrambi morirono, nonostante l’ultima dose fosse molto più bassa delle precedenti.

Troppo giovane per il Nobel

Si legge spesso che il faraone Menes, secondo il racconto dei geroglifici, sarebbe morto per la puntura di una vespa. Si tratterebbe, in questo caso, della prima descrizione documentata di anafilassi, ma è molto probabile che questa interpretazione sia errata.

La prima fonte certa emersa finora è lo scritto di un monaco benedettino che, nel 1699, descriveva in latino la rapida morte di un uomo dopo la puntura di un’ape. Ma prima degli esperimenti di Richet e Portier il fenomeno non era stato mai stato trattato sperimentalmente, come d’altronde nessun altro fenomeno allergico. Furono proprio Richet e Portier, infatti, a coniare il termine anafilassi (originariamente afilassi) col significato di “mancanza di protezione”. All’epoca non esistevano gli strumenti per capire come funzionasse a livello molecolare e cellulare questo problema. Né si sapeva in generale granché sui meccanismi dell’allergia (una parola coniata pochi anni più tardi). Si era però capito che quanto osservato non poteva essere imputato alla tossicità delle sostanze, bensì a una reazione incontrollata del sistema immunitario che conservava una memoria della prima esposizione. Per l’epoca la scoperta di questo aspetto dell’immunità, se vogliamo paradossale, era rivoluzionaria.

Dopo la prima pubblicazione sul tema, nel 1902, Portier e Richet presero strade diverse: il primo tornò al suo lavoro di assistente alla Sorbona, mentre il secondo poté permettersi di continuare a studiare il fenomeno appena scoperto. Nel 1913 fu assegnato il premio Nobel per la medicina al solo Richet, che ancora oggi è spesso ricordato come unico scopritore dell’anafilassi. A differenza di quanto accaduto per altri Nobel “negati”, il fatto all’epoca non fece scalpore: Portier era più giovane e più in basso nella “scala gerarchica” dell’accademia, e fu ritenuto giusto che si accontentasse di essere nominato di sfuggita da Richet nel suo discorso di accettazione del premio.

Stefano Dalla Casa
Giornalista e comunicatore scientifico, si è formato all’Università di Bologna e alla Sissa di Trieste. Scrive o ha scritto per le seguenti testate o siti: Il Tascabile, Wonder Why, Aula di Scienze Zanichelli, Chiara.eco, Wired.it, OggiScienza, Le Scienze, Focus, SapereAmbiente, Rivista Micron, Treccani Scuola. Cura la collana di divulgazione scientifica Zanichelli Chiavi di Lettura. Collabora dalla fondazione con Pikaia, il portale dell’evoluzione diretto da Telmo Pievani, dal 2021 ne è il caporedattore.
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