Ancora alla fine dell’Ottocento non esistevano procedure precise e standardizzate per prevenire le infezioni in sala operatoria, e in molti casi le condizioni igieniche erano pessime. Presso il Johns Hopkins Hospital si utilizzavano alcuni disinfettanti efficaci ma molto potenti, tanto da infiammare dolorosamente le mani di un’abile infermiera. Fu per proteggere quelle mani che il chirurgo William Halsted contribuì a inventare i guanti chirurgici, che da allora salvano milioni di vite.
Se pensiamo a un chirurgo o una chirurga li immaginiamo con guanti, cuffia e mascherina. Ma non è sempre stato così: fino all’inizio del Novecento, gli interventi chirurgici spesso avvenivano ancora in scarse condizioni igieniche. I medici indossavano abiti sporchi e non erano concordi sulla necessità di utilizzare saponi, disinfettanti o antisettici per operare. Perfino lavarsi le mani tra una procedura e l’altra non era una prassi che era stata accettata facilmente, dopo la proposta a metà Ottocento da parte del medico Ignác Fülöp Semmelweis a Vienna. Negli Stati Uniti, nel 1890, proprio l’uso dei disinfettanti portò un medico a introdurre un’innovazione banale eppure essenziale per prevenire le infezioni in medicina: i guanti chirurgici. E a far nascere una storia d’amore.
Caroline Hampton nacque in Sud Carolina all’alba della Guerra di secessione, nel 1861. Gli Stati del Sud dell’Unione americana, tra cui quello di origine di Caroline, intendevano diventare indipendenti dagli Stati del Nord fondando una confederazione. L’obiettivo principale era tutelare gli interessi economici delle regioni meridionali degli Stati Uniti, tra cui mantenere la schiavitù, che invece gli Stati del Nord volevano abrogare. La famiglia di Caroline era benestante e aristocratica: suo zio era Wade Hampton, un famoso proprietario terriero, politico e generale confederato.
Dopo solo un anno di vita, Caroline rimase orfana, perdendo la madre di tubercolosi e, dopo pochi mesi, il padre in guerra. A prendersi cura di lei furono le sue tre zie. Ma nel 1865 i soldati di William Tecumseh Sherman, generale dell’esercito degli Stati del Nord, incendiarono i terreni e la villa degli Hampton. Così, Caroline e le sue zie si trasferirono in una piccola casa accanto alle rovine delle loro vecchie proprietà.
Le zie crebbero Caroline come una “southern belle”, una ragazza appartenente alla “planter class”, la classe dei proprietari terrieri di piantagioni: alla moda, graziosa, leale e ospitale. Si aspettavano che sarebbe diventata una vera “lady” e avrebbe sposato un proprietario terriero. Ma la giovane aveva altre ambizioni. Contro il volere della famiglia, a 24 anni si trasferì a New York per studiare da infermiera. Si diplomò dopo tre anni, nel 1888.
Caroline era considerata un’infermiera molto capace, rapida e calma. Nel 1889 iniziò a lavorare come caposala a Baltimora, presso il neonato Johns Hopkins Hospital, un centro medico e accademico che ai giorni nostri è uno dei più importanti e famosi degli Stati Uniti. E fu qui che avvenne lo storico incontro con il chirurgo William Halsted.
Nato a New York nel 1852 da una famiglia benestante e formatosi in università prestigiose (passando per Yale e studiando a Vienna per due anni), William Halsted era considerato uno dei più brillanti chirurghi statunitensi. Nel corso della sua carriera propose tecniche innovative per trattare diverse malattie, tra cui i calcoli biliari, l’ernia inguinale, gli aneurismi e alcuni disturbi intestinali, della tiroide e dei vasi sanguigni. William Halsted ideò anche la mastectomia radicale, una procedura in cui alle donne malate di cancro al seno venivano rimosse entrambe le mammelle, i linfonodi vicini e alcuni muscoli adiacenti per limitare il rischio di recidive. Una tecnica che in alcuni casi prolungava la vita di queste donne, ma le lasciava pesantemente mutilate. Con il progresso delle conoscenze e soprattutto con lo sviluppo dei metodi di diagnosi precoce e delle terapie, la mastectomia radicale è stata abbandonata e sostituita da operazioni più conservative.
Tra i maggiori contributi alla scienza di William Halsted troviamo soprattutto visionarie procedure relative alla pratica clinica in generale. Già nei primi anni della sua carriera migliorò i metodi di disinfezione delle sale chirurgiche e propose modi per ridurre il sanguinamento nel corso delle operazioni. Poi ideò un sistema di formazione dei medici specializzandi, la cosiddetta residency, molto strutturato, coinvolgente e responsabilizzante, su cui si fonda quella attuale. Inoltre, sperimentò nuovi metodi per anestetizzare meglio i pazienti, come le iniezioni di cocaina. Insieme a un gruppo di colleghi, per studiarne meglio gli effetti la usò anche su di sé, e ne sviluppò presto una dipendenza. Per questo dovette prendersi due lunghi periodi di pausa dalla professione, per la propria disintossicazione. Ma per contrastare i sintomi dell’astinenza assunse morfina, sostituendo una dipendenza con un’altra.
All’epoca usare la morfina era più socialmente accettabile che usare la cocaina (anche se quest’ultima era legale e fu un ingrediente della Coca-Cola fino al 1903). Ma non se a farlo era un medico, così la reputazione di Halsted ne uscì danneggiata. Il chirurgo venne però chiamato dal Johns Hopkins Hospital, appena fondato. L’approccio di Halsted cambiò: prima nel suo lavoro era rapido, carismatico, socievole e tendeva a osare. Ma la sua esperienza e, probabilmente, la volontà di nascondere la sua dipendenza lo spinsero a diventare più cauto, meticoloso e riservato, e a delegare molto lavoro pratico ai medici specializzandi.
La possibilità che esistessero i microrganismi era discussa già molto prima che venissero osservati per la prima volta, nel XVII secolo. Ciò avvenne grazie alle lenti del microscopio inventato da Antonie van Leeuwenhoek (1632-1723), che descrisse per primo i piccoli esseri viventi altrimenti invisibili. Nel VI secolo a.C. il Jainismo, una filosofia e una religione diffusa ancora oggi in India, parlava di esseri invisibili a occhio nudo, i nigoda. Ma la consapevolezza che i microrganismi fossero all’origine delle malattie infettive sarebbe arrivata ben più tardi, insieme alla conseguente necessità di disinfettare mani e superfici anche in ambito medico e chirurgico. Dopo gli esperimenti non conclusivi di Francesco Redi e Lazzaro Spallanzani, tra Seicento e Settecento, bisognò attendere gli studi di Louis Pasteur (1822-1895) e Robert Koch (1843-1910) perché si affermasse definitvamente la teoria dei germi, che individuava nei microrganismi la causa delle malattie infettive.
Nel frattempo, i metodi per limitare le infezioni variavano da sala operatoria a sala operatoria. C’era chi propendeva per lavare gli ambienti e le mani, come Thomas Spencer Wells, in contrapposizione a chi impiegava antisettici per operare, sulla scorta del chirurgo inglese Joseph Lister che li aveva introdotti intorno al 1860. I guanti erano invece lontani dalla pratica clinica. In medicina erano stati introdotti nel 1758, ma erano ricavati da interiora di animali e quindi erano molto spessi e poco pratici. Li usavano solo alcuni ginecologi e medici legali. Qualcuno operava usando delle sostanze che formavano delle pellicole sulle mani, ma duravano poco.
William Halsted era molto sensibile al tema della prevenzione delle infezioni chirurgiche. Una decina d’anni prima di incontrare Caroline Hampton aveva iniziato a seguire una procedura sterilizzante molto rigorosa: il personale della sala doveva lavarsi le mani con il sapone, poi immergere mani e braccia in una soluzione di permanganato di potassio e a seguire in una di acido ossalico caldo, e, infine, lavare nuovamente le mani in cloruro mercurico. Una procedura che era sicuramente efficace nell’uccidere i microrganismi, ma che danneggiava la pelle. In effetti, oggi sappiamo che l’acido ossalico e il cloruro mercurico sono sostanze tossiche.
E Caroline, una volta preso servizio al Johns Hopkins Hospital, ne subì le conseguenze. Nella sala chirurgica svolgeva anche il ruolo di ferrista: prima degli interventi, preparava gli strumenti necessari al chirurgo per operare, dai ferri alle bacinelle; durante le operazioni, porgeva e toglieva gli strumenti al medico a seconda delle necessità e verificava che nulla andasse perso. Doversi disinfettare le mani in questo modo così spesso le causò un eczema: le sue braccia e le mani erano rosse, irritate, screpolate e molto doloranti.
William Halsted cercò allora una soluzione al problema di salute dell’infermiera, che riteneva particolarmente efficiente. Dapprima le propose di provare a proteggersi usando il collodione, una sorta di sciroppo gelatinoso che si solidificava intorno alle dita, ma che non funzionò perché si spaccava facilmente. Così, si rivolse a un’azienda che produceva oggetti di gomma, la Goodyear Rubber Company, chiedendo loro che producessero dei guanti di gomma per Caroline. Affinché questi guanti fossero su misura, fece realizzare dei calchi in gesso delle mani dell’infermiera. L’idea funzionò: i guanti, che venivano bolliti fra un’operazione e l’altra per essere disinfettati, consentirono alle mani di Caroline di guarire.
Nel frattempo, Caroline e William si scoprirono innamorati. William Osler, medico canadese che aveva co-fondato l’ospedale, scrisse che un giorno li aveva trovati nel laboratorio di patologia mentre lui le illustrava un perone: un flirt “in stile medico”. Così il professore si rese conto di quello che stava succedendo fra loro e si sedette a guardarli, per irritare il collega. Nel marzo del 1890 William si propose a Caroline e i due si sposarono il 4 giugno dello stesso anno.
I guanti realizzati per Caroline si dimostrarono così efficaci che l’ospedale ne ordinò ulteriori paia e anche altri infermieri iniziarono a indossarli, preferendoli alle mani nude. Invece i chirurghi erano restii a indossarli, un po’ perché ne sottovalutavano l’utilità (come lo stesso William), un po’ perché temevano che avrebbero limitato il loro senso del tatto e quindi la loro capacità di operare. Si prediceva che questa novità sarebbe stata catastrofica per il futuro della chirurgia. “Alle nuove generazioni di chirurghi dico: combattete con tutte le vostre forze contro l’idea di usare uno strumento che danneggerà la vostra risorsa più preziosa, il senso del tatto” scrisse Robert Morris nel 1898.
Ma i guanti presero… mano anche tra i chirurghi, e prestò si osservò che proteggevano i pazienti dalle infezioni. A evidenziare la loro utilità fu in particolare Joseph Bloodgood, uno studente di William che aveva subito preso l’abitudine di indossare i guanti chirurgici durante le operazioni. Il giovane medico rilevò che, tra il 1889 e il 1899, il tasso di infezione tra i pazienti operati da personale senza guanti superava il 17 per cento, mentre quando questi indossavano i guanti il tasso scendeva sotto il 2 per cento. Un dato che illuminò diversi chirurghi sull’importanza dei guanti chirurgici. Incluso William, che nel frattempo era diventato anche dirigente medico e professore di chirurgia presso l’ospedale.
William e Caroline non ebbero figli, ma si presero cura di cani e altri animali nella loro casa in montagna, in cui amavano trascorrere il tempo libero, l’uno scoprendo una passione per l’astronomia e l’altra per la cura di piante e animali. Lui morì proprio al Johns Hopkins Hospital, nel 1922, all’età di 70 anni. Per ironia della sorte, la causa fu un’infezione in seguito a un’operazione che aveva subito per la rimozione di calcoli biliari e che era stata effettuata da due suoi specializzandi. Caroline morì appena tre mesi dopo, a 61 anni, a causa di una polmonite.
Oggi la diffusione dei guanti consente di prevenire casi di infezione in chirurgia per milioni di persone ogni anno. E sappiamo quanto evitare le infezioni sia importante, anche per l’antibiotico-resistenza, un importante problema che rende sempre più difficile guarire da malattie provocate da batteri insensibili ai farmaci. Grazie ai suoi contributi, William Halsted è spesso celebrato come uno dei “padri” della moderna chirurgia, e si ritiene che Caroline, che lasciò la professione di infermiera dopo il matrimonio, abbia contribuito a ispirare alcune sue intuizioni.