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L’odissea di Biosfera 2

Arizona, anni Novanta. In una stazione sperimentale sigillata si è cercato di riprodurre in scala ridotta l’ecologia della Terra. I membri di due missioni umane vi hanno trascorso mesi all’interno, vivendo delle sue risorse. Il progetto visionario è però fallito. Ripercorriamo la storia di Biosfera 2 e scopriamo che fine ha fatto.

Oggi Biosfera 2 è una struttura educativa e di ricerca gestita dall’Università dell’Arizona. È racchiusa fra pareti di vetro su un telaio in acciaio, si estende per oltre un ettaro e al suo interno sono riprodotti in scala ridotta cinque biomi terrestri: oceano, foresta di mangrovie, foresta tropicale, savana, deserto, ognuno popolato dai relativi animali e piante. Un vero e proprio terrario di 200.000 metri cubi che, dal 2011, gli scienziati dell’università locale utilizzano per studiare l’ambiente, in particolare il clima, e che è anche un’attrazione turistica.

Non è sempre stato così. Un tempo gli obiettivi di questo progetto erano molto più ambiziosi: Biosfera 2 era stata costruita per essere una versione in scala ridotta di Biosfera 1, cioè della nostra Terra e di chi la abita, e per questo ha anche ospitato i membri di due missioni umane, che per mesi sono rimasti isolati a vivere di ciò che l’interno della struttura produceva.

Come è nato l’esperimento

La costruzione di Biosfera 2 fu avviata negli anni Ottanta, dopo che nei vent’anni precedenti le preoccupazioni per l’ambiente avevano dato origine ai movimenti per la difesa dei territori e la conservazione delle specie. A livello scientifico si stava consolidando la disciplina dell’ecologia, ispirata anche da queste correnti di pensiero. Circa nello stesso periodo, termini come ecosistema (usato per la prima volta nel 1935) si sono diffusi, oltre che tra gli scienziati, anche tra la gente comune. I rischi ambientali di cui si stava allora prendendo coscienza, dovuti, tra le altre cose, ai pesticidi, all’inquinamento atmosferico e idrico e alla rapida estinzione di molte specie, si intersecavano con il pericolo di una guerra nucleare che, in caso, avrebbe profondamente cambiato l’ambiente. Ma si iniziava a sperare in una possibile via di uscita da questi pericoli terrestri, nello spazio. Dopo lo sbarco sulla Luna, la colonizzazione umana del Sistema solare poteva sembrare più vicina di quanto fosse in realtà.

Fu in questo contesto che nacque il moderno concetto di biosfera: un sistema virtualmente chiuso agli scambi di materia ma non di energia, che si autoregola ed è essenziale alla vita. La biosfera terrestre fu paragonata a una specie di grande astronave, che non riceve nuova materia dallo spazio e vi disperde solo poco gas, ma prende l’energia necessaria alla vita dal Sole. All’interno della biosfera, gli organismi vivono, muoiono e si evolvono riciclando gli stessi componenti presenti in partenza. Due furono i motivi principali che spinsero gli scienziati a provare a riprodurre artificialmente queste condizioni in scala molto ridotta: primo, la biosfera originale avrebbe potuto essere distrutta, sia dall’inquinamento sia dalle guerre; in linea di principio, dunque, le biosfere artificiali avrebbero dovuto garantirne la continuità, e non solo sulla Terra, ma anche nello spazio, su altri pianeti, o come rifugi o scialuppe di salvataggio. Secondo, come scrisse il fisico Richard Feynman, Quello che non posso creare non posso comprendere: una biosfera artificiale sarebbe stata un modo per studiare in modo ridotto e controllato quella naturale.

Questo, in sintesi, è l’humus culturale che rese possibile il lancio di Biosfera 2, un progetto privato americano che venne finanziato da un miliardario e filantropo, Ed Bass, e coordinato da un ecologo, John Polk Allen. Per realizzarlo, nel 1984, si costituì la Space Biosphere Ventures, che per prima cosa acquistò il terreno destinato a ospitare il gigantesco esperimento, nel deserto di Sonora, in Arizona.

Scienza e media

La costruzione della struttura non fu affatto semplice e richiese il contributo dell’ingegneria più sofisticata dell’epoca. Non mancarono le difficoltà: per esempio, l’intero complesso avrebbe dovuto essere alimentato solo dall’energia solare (proprio come la nostra Terra), ma l’effetto serra causato dalle pareti di vetro diventò presto ingovernabile, costringendo gli ingegneri a realizzare potenti sistemi di climatizzazione alimentati da una centrale elettrica dedicata.

Non era il primo esperimento del genere. Dal 1972 i sovietici avevano lavorato alla messa a punto di Bios-3, un’altra biosfera artificiale, costruita nel sottosuolo e molto più piccola. Biosfera 2 invece era enorme: oltre ai cinque biomi naturali, ne facevano parte un bioma agricolo e una micropolis, cioè una città hi-tech in miniatura costruita per ospitare otto “biosferiani”, ovvero l’equipaggio della missione che sarebbe stato sigillato al suo interno. Inoltre era stata costruita in modo da essere vista da tutti: fin dal principio il progetto fu pubblicizzato nello stile delle missioni spaziali, e del resto tra i numerosi consulenti scientifici reclutati c’erano anche membri della Nasa.

Le missioni

Il 26 settembre 1991 otto persone entrarono nella gigantesca “arca di vetro”, come era stata soprannominata, che già ospitava circa 3.800 specie, tra animali e piante. Quando quelle persone uscirono, due anni dopo, erano cambiate molte cose, dentro e fuori. L’equipaggio degli otto biosferiani e il gruppo che dall’esterno coordinava la missione avevano toccato con mano le difficoltà di imitare i sistemi naturali.

All’interno di Biosfera 2 i livelli di anidride carbonica (CO2) avevano fluttuato moltissimo: quando il Sole splendeva, le piante la catturavano dall’aria per costruire zuccheri attraverso la fotosintesi, ma la notte e in inverno (con meno luce) la respirazione di tutti gli esseri viventi, inclusi i batteri decompositori del ricco bioma tropicale, prendeva subito il sopravvento e il gas si accumulava. Ci si mise anche El Niño, la fluttuazione climatica che ha effetti sull’intero pianeta: a causa sua, tra il 1991 e il 1992 passarono più nuvole del previsto sopra l’Arizona, frenando e riducendo la fotosintesi. È bene precisare che il livello di anidride carbonica fluttua per gli stessi motivi anche su Biosfera 1 (oltre a crescere con lo sfruttamento dei combustibili fossili), ma dentro Biosfera 2 la variazione era molto più marcata. I biosferiani mantennero la situazione sotto controllo grazie anche a una macchina per rimuovere la CO2.

Un altro problema fu l’ossigeno che lentamente diminuiva. Gli scienziati erano consapevoli che una piccola quantità d’aria sarebbe sfuggita dai pannelli, ma i conti non tornavano ugualmente. Si decise così di pompare ossigeno nella struttura per salvaguardare la salute dei membri dell’equipaggio, alcuni dei quali avevano i sintomi tipici della permanenza ad alta quota. Il mistero dell’ossigeno mancante fu chiarito solo dopo la fine della missione: una parte di anidride carbonica aveva reagito con l’idrossido di calcio presente nel cemento della struttura, dando origine a carbonato di calcio (CaCO3); a quel punto, la CO2 era immobilizzata nei minerali e le piante non potevano più riciclarla per produrre ossigeno, che così, in proporzione, diminuiva.

Anche la biodiversità cambiò in modo drastico. Quasi tutti i vertebrati morirono, e anche molti insetti impollinatori. In compenso prosperò una specie di formica invasiva, la Paratrechina longicornis, che nessuno aveva incluso fra quelle da inserire nell’arca e che in qualche modo era riuscita a penetrarvi, forse trasportata per errore. Diventò rapidamente dominante e lo stesso successe con i rampicanti della famiglia Convolvulacee: erano stati introdotti per riciclare l’anidride carbonica, ma senza l’intervento degli occupanti umani avrebbero finito per soffocare le altre piante.

I biosferiani avevano un sacco di lavoro, più del previsto, e avevano fame. Nonostante il bioma agricolo fosse molto produttivo (coltivarono oltre l’80 per cento del fabbisogno), la loro dieta ipocalorica non aiutava a mantenere alto il morale, anche se, stando agli esami clinici di monitoraggio, gli otto volontari non erano mai stati più in salute. Finirono per mangiare non solo le provviste di emergenza, ma anche i semi che non avevano coltivato e, quando uscirono dall’esperimento, alcuni membri dell’equipaggio si parlavano a stento tra loro. Nel tempo, tra gli otto “sotto vetro” si erano sviluppate divisioni insanabili e il piccolo gruppo si era spaccato.

La seconda missione andò peggio. Biosfera 2 non si era fatta una buona reputazione nell’opinione pubblica a causa delle notizie sull’andamento della prima missione, cosa che influenzò negativamente l’intero progetto. Anche fuori da Biosfera 2, insomma, si cominciò a litigare con scambi di accuse reciproche. Poco dopo l’inizio della seconda missione, a marzo 1994, Ed Bass trasferì la gestione da John Polk Allen, il principale ideatore di Biosfera 2, a Steve Bannon, allora manager di una banca di investimenti (lo stesso Steve Bannon che vent’anni più tardi sarebbe diventato prima giornalista e poi consigliere di Donald Trump e altri politici estremisti).

Poco dopo, due biosferiani della prima missione tornarono in Arizona e manomisero deliberatamente la struttura in modo che potesse entrare aria dall’esterno. Furono accusati di vandalismo, ma si difesero affermando che erano preoccupati per il secondo equipaggio. La nuova gestione aveva estromesso i tecnici originali del progetto e questo, secondo alcuni, metteva in pericolo i nuovi arrivati. Invece dei dieci mesi pattuiti, la missione fu interrotta dopo sei, la Space Biosphere Ventures si sciolse e in breve la gestione di Biosfera 2 passò nelle mani della Columbia University, per poi essere acquistata dall’Università dell’Arizona.

Fallimento o successo?

La storia di Biosfera 2 è degna di un film o almeno di un documentario. Nel 2020 è uscito Spaceship Earth, che ha fatto conoscere lo strano esperimento a un pubblico più ampio e internazionale. Non è facile tracciare un bilancio dell’esperienza, soprattutto dal punto di vista scientifico. Per molti critici l’esperimento non era stato condotto dalle persone più adatte. Nonostante il background scientifico della maggior parte dei partecipanti all’impresa e nonostante i consulenti di prim’ordine, negli equipaggi c’erano pochi accademici. Inoltre i membri erano tutti legati in qualche modo al “Synergia Ranch”, un ecovillaggio fondato da Allen nel 1969: tutti, insomma, erano figli della cosiddetta controcultura e da attivisti militanti condividevano l’obiettivo di cambiare il mondo. Più volte, nella copertura giornalistica dedicata all’epoca al progetto, e in buona parte di quella attuale, sono state utilizzate espressioni quali “culto”, “New Age” e “hippie”.

Un altro motivo di critica – come già accennato – deriva dalle enormi difficoltà che i biosferiani incontrarono, in particolare nel corso della prima missione. Biosfera 2 avrebbe dovuto essere un ecosistema chiuso e autosufficiente, eppure era stato necessario pompare ossigeno al suo interno e l’equipaggio umano aveva consumato le riserve di cibo di emergenza. In qualche modo si pensò che avessero “barato”, senza contare i cambiamenti ecologici che avevano gradualmente trasformato l’Eden di partenza in qualcosa di molto diverso e senza dubbio meno ospitale rispetto alle aspettative.

Un’altra critica è stata la scarsità di pubblicazioni scientifiche (molte, in effetti, uscirono solo dopo la fine della seconda missione). Stando ad Allen, anche questo dipendeva dalle lotte intestine nella gestione del progetto; nello specifico, l’ecologo ha denunciato che parte dei dati raccolti diventarono inaccessibili ai ricercatori dopo che Bannon aveva assunto il controllo di Biosfera 2.

Pur senza tentare di replicare le missioni e rinunciando all’ecosistema chiuso (ora c’è un sistema di areazione che periodicamente introduce aria dall’esterno), la Columbia University e poi l’Università dell’Arizona si sono avvicendate alla gestione della struttura. Forse questo è un segno del fatto che il progetto, nonostante tutte le pecche e le ingenuità, è ancora qualcosa di più rispetto a una semplice attrazione turistica frutto delle pazzie di un gruppo di hippie. A oggi le ricerche sul sistema ecologico terrestre proseguono.

Non tutti insomma concordano che sia stato un totale fallimento, a partire naturalmente dal gruppo che vi ha partecipato da principio. Come scriveva Mark Nelson, un ecologo della prima missione, alcuni anni fa, “non avevamo un manuale di istruzioni”, cioè nessuno aveva mai provato a gestire un ecosistema chiuso su quella scala. Parte dei problemi erano stati previsti, molti no, ma alla fine ogni membro dell’equipaggio, messo a dura prova, aveva fatto la propria parte. I membri del gruppo si erano presi cura di Biosfera 2 al meglio delle possibilità e conoscenze scientifiche del tempo, ed erano riusciti – nonostante le estinzioni, i problemi dell’atmosfera, le specie invasive –a mantenere gli ecosistemi da cui dipendeva la loro stessa sopravvivenza.

Stefano Dalla Casa
Giornalista e comunicatore scientifico, si è formato all’Università di Bologna e alla Sissa di Trieste. Scrive o ha scritto per le seguenti testate o siti: Il Tascabile, Wonder Why, Aula di Scienze Zanichelli, Chiara.eco, Wired.it, OggiScienza, Le Scienze, Focus, SapereAmbiente, Rivista Micron, Treccani Scuola. Cura la collana di divulgazione scientifica Zanichelli Chiavi di Lettura. Collabora dalla fondazione con Pikaia, il portale dell’evoluzione diretto da Telmo Pievani, dal 2021 ne è il caporedattore.
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