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La scienza (sballata) della macchina della verità

Verso la fine dell’Ottocento, Cesare Lombroso descriveva uno strumento che, misurando la pressione sanguigna, era a suo dire in grado di capire se una persona fosse colpevole o innocente. Anche se nel frattempo la tecnologia ha fatto parecchia strada, ancora oggi non esiste in realtà una “macchina della verità” efficace (e dovremmo anche chiederci se sia desiderabile averne una).

Tutti mentono, per i motivi più disparati, e in tanti pensiamo, a torto, di avere una certa capacità di intuire quando una persona non ci racconta la verità. Nessuno, però, si prenderebbe volentieri la responsabilità di stabilire con certezza se qualcuno sta mentendo su questioni particolarmente rilevanti, per esempio riguardo a un crimine commesso.

Se avessimo a disposizione sistemi scientifici oggettivi per stabilire il vero o il falso di un’affermazione, preferiremmo affidarci a essi? Forse è per questo che, nel corso dei secoli, la possibilità di mettere a punto una macchina della verità ha solleticato la curiosità di più di uno studioso.

Verità e bugie nell’antichità

Nella Bibbia si legge di re Salomone che ordina di tagliare a metà un bambino conteso tra due donne che affermano entrambe di esserne la madre. Lo stratagemma smaschera la falsa madre, perché solo quella vera è pronta a rinunciare al bambino piuttosto che vederlo ucciso.

Il passato remoto ci offre anche altri esempi di metodi utilizzati per rilevare le bugie. Secondo la leggenda, il principe siriano Antioco era afflitto da una misteriosa malattia. Il medico di corte Erasistrato aveva osservato il suo comportamento di fronte ad alcuni spettatori e aveva concluso che il giovane era innamorato della matrigna Stratonice. Stando a quanto scritto nell’enciclopedia bizantina Suda, Erasistrato avrebbe per questo appoggiato la mano sul petto di Antioco, verificando che il suo battito cardiaco accelerava alla vista della donna. Il giovane non voleva ammettere l’amore proibito, ma la sua fisiologia non gli lasciò scampo.

Un metodo che nel passato era considerato infallibile per scoprire la verità prevedeva di sottoporre l’accusato a qualche tipo di prova fisica, anche molto dolorosa, sottintendendo che Dio non avrebbe lasciato soffrire, o peggio morire, un innocente, e quindi sarebbe intervenuto in qualche modo. Questo procedimento è noto come ordalia, ed è stato utilizzato in molte culture, tra cui quelle del Medioevo europeo.

Si racconta poi che nell’antica Cina i sospettati di qualche crimine venissero interrogati mentre tenevano in bocca un po’ di riso. Se quando lo sputavano era asciutto, e quindi avevano la bocca secca, significava che stavano mentendo. Molto probabilmente si tratta di una diceria che ha cominciato a diffondersi in Occidente oltre un secolo fa, perché i dettagli di questa pratica variano da fonte a fonte e nessuna indica un testo di riferimento.

Dalla frenologia al poligrafo

Nell’Ottocento, il crimine diventa una questione apparentemente più scientifica. Si affermano discipline come la frenologia, secondo la quale il cervello sarebbe suddiviso in “organi” che determinano anche la personalità. I frenologi sostenevano che, toccando e misurando la testa di una persona, fosse possibile conoscerne i tratti caratteriali. La scienza moderna ha dimostrato che questo non è possibile e che la frenologia è una dottrina pseudoscientifica priva di fondamento, nonostante il cervello sia in effetti caratterizzato da molteplici funzioni, corrispondenti a specifici circuiti di neuroni. La frenologia ha però goduto a lungo di un ampio supporto anche popolare e i frenologi erano spesso interpellati in merito a casi giudiziari. L’imputato poteva negare il crimine di cui era accusato quanto voleva, ma la sua testa, secondo quelle teorie, avrebbe rivelato il suo carattere e, di conseguenza, se la sua parola era degna di essere di fede.

A fine Ottocento, le idee del medico e criminologo Cesare Lombroso non erano molto diverse. Si era convinto che i criminali mostrassero tratti “primitivi”, che li avvicinavano più agli animali con cui siamo imparentati che alle cosiddette persone per bene. Secondo i suoi principi, i delinquenti erano più o meno condannati dalla nascita a essere tali, ma, perlomeno, la società avrebbe avuto gli strumenti per riconoscerli. Non è un caso, quindi, che Lombroso sia stato tra i primi a sperimentare forme embrionali di macchine della verità.

Il criminologo usava alcuni strumenti, da poco introdotti in fisiologia e medicina a fini diagnostici, con il diverso scopo di rivelare le emozioni dei criminali. Uno di questi era il guanto volumetrico, inizialmente sviluppato per misurare la pressione. Una volta indossato e sigillato sul polso, l’attrezzo veniva gonfiato con aria: in questo modo, i piccoli cambiamenti della pressione sanguigna modificavano quella dell’aria confinata all’interno del guanto stesso e quindi potevano essere misurati. L’idea di Lombroso era questa: se prima parliamo con qualcuno di argomenti neutri e in seguito spostiamo la conversazione sulla sua famiglia e i suoi amici, il guanto registrerà cambiamenti di pressione solo se il soggetto prova davvero qualcosa per queste persone. Se questo invece non accade, allora significa che abbiamo di fronte qualcuno che non prova davvero amore. Un criminale, dunque.

Il poligrafo, cioè la macchina della verità per antonomasia, nasce intorno agli anni Venti del Novecento. Grazie all’entusiasmo della stampa e al suo uso in casi giudiziari eclatanti, diventa così popolare che molte persone si contenderanno la paternità dell’invenzione: tra questi John Larson, William M. Marston, Leonarde Keeler.

La macchina però non si discosta molto dalla teoria alla base del guanto volumetrico di Lombroso e da altri simili apparati in voga nell’Ottocento: ne è piuttosto un’evoluzione. La differenza è che, invece di monitorare un solo parametro fisiologico, il poligrafo registra contemporaneamente pressione, polso, conduttanza cutanea (che cambia con la sudorazione) e respirazione. Dopo un’opportuna taratura, la teoria postula che un esperto possa condurre un interrogatorio e interpretare i grafici registrati dalla macchina, rivelando se la persona interrogata ha mentito. Con lo sviluppo di queste tecnologie la criminologia aveva abbandonato le pseudoscienze della frenologia e del “criminale nato”, ma non l’idea che le bugie si potessero oggettivamente svelare. Ma neppure il poligrafo ha mantenuto la promessa, rivelandosi del tutto inattendibile.

Al di là di ogni ragionevole dubbio

Il test del DNA è usato in medicina forense, per esempio per provare la paternità di una persona o la presenza di un individuo sulla scena di un crimine. La sua introduzione in ambito legale è tuttavia avvenuta dopo che una serie di scoperte scientifiche fondamentali ne hanno stabilito l’affidabilità. Tra queste vi sono state la scoperta della struttura del DNA e la possibilità di leggere con precisione le sequenze di basi a costi contenuti.

Lo stesso percorso scientifico rigoroso non è invece mai avvenuto per le cosiddette macchine della verità. Nessuno ha infatti mai scoperto un meccanismo biologico che, per esempio, si attiva o inattiva quando una persona sta mentendo oppure no. Quando mentiamo, il nostro comportamento può in effetti cambiare, ma stabilire dei principi oggettivi che valgano per ognuno e in ogni circostanza è un altro paio di maniche.

La validità del poligrafo è, di fatto, da sempre molto discussa. Nel 2003 è uscito un lungo rapporto della National Academy of Sciences americana, in cui si legge che le basi scientifiche di queste pratiche sono molto deboli. Il parere è condiviso anche dall’American Psychological Association. Per la maggior parte degli esperti da allora non è cambiato nulla.

I sostenitori di questi metodi, e coloro che li commercializzano, affermano che i loro test sono accurati all’80-90 per cento. Anche prendendo per buoni questi numeri, pur sapendo che non lo sono, ciò significherebbe che un poligrafo classificherebbe come bugiarde almeno il 10 per cento di persone che non lo sono.

C’è chi vorrebbe provare a superare i limiti dello strumento aumentando i dati a disposizione. A questo scopo potrebbero essere utilizzati l’elettroencefalogramma, la risonanza magnetica, il tracciamento oculare, sistemi capaci di rilevare microespressioni e microgestualità, e, in ultimo, anche l’intelligenza artificiale. Nonostante le possibili aggiunte tecnologiche, restano non risolti i problemi di cui si è detto sopra: nessuno ha ancora scoperto l’equivalente del test del DNA per stanare con un ragionevole grado di probabilità le bugie. Per la maggior parte degli esperti l’affidabilità delle “nuove” macchine della verità rimane insufficiente perché possano essere usate al di fuori dell’ambito sperimentale.

Anche per questo le macchine della verità non sono più ammesse dalla maggioranza dei tribunali quali fonti di prove. Sono però ancora molto usate dalle forze dell’ordine, soprattutto negli Stati Uniti, quale leva per ottenere confessioni (un po’ come l’ordalia di cui sopra) e per selezionare personale di agenzie governative. Persino l’Unione europea ha finanziato un progetto che usa una “macchina della verità smart, basata sul riconoscimento delle microespressioni facciali e altri parametri, allo scopo di stabilire chi è degno di attraversare le frontiere. La dubbia efficacia, insomma, non ferma il giro di affari intorno a questi strumenti, che è nell’ordine dei miliardi di dollari.

Stefano Dalla Casa
Giornalista e comunicatore scientifico, si è formato all’Università di Bologna e alla Sissa di Trieste. Scrive o ha scritto per le seguenti testate o siti: Il Tascabile, Wonder Why, Aula di Scienze Zanichelli, Chiara.eco, Wired.it, OggiScienza, Le Scienze, Focus, SapereAmbiente, Rivista Micron, Treccani Scuola. Cura la collana di divulgazione scientifica Zanichelli Chiavi di Lettura. Collabora dalla fondazione con Pikaia, il portale dell’evoluzione diretto da Telmo Pievani, dal 2021 ne è il caporedattore.
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